Sui corridoi della fiera di Rimini si è discusso di numeri che in molti uffici del Paese avranno presto ricadute concrete: non si tratta solo di etichette verdi, ma di posti di lavoro da ripensare. Al convegno “Green Jobs, capitale del futuro” a Ecomondo i dati esposti hanno tracciato uno scenario in cui la trasformazione ecologica si intreccia con quella digitale, cambiando la richiesta di competenze nelle imprese. La cifra più citata apre il dibattito: serve una massa di professionisti in grado di agire sui processi produttivi e sui consumi.
Numeri e scenari
Il report previsivo curato da Unioncamere e dal Ministero del Lavoro per il periodo 2025-2029 disegna un fabbisogno consistente: circa 4 milioni di lavoratori con competenze green nel quinquennio. È un dato che pesa sul mercato del lavoro, perché rappresenta quasi due terzi del fabbisogno occupazionale stimato per il Paese. Chi assume dovrà dunque guardare oltre il titolo di studio: conta la capacità di incidere sull’impatto ambientale delle attività.

La proiezione specifica che di questi nuovi profili circa 2,4 milioni dovranno possedere una attitudine green trasversale, una competenza di base che implica mettere a punto soluzioni per ridurre consumi ed sprechi. In termini pratici si parla di pratiche quotidiane in azienda, interventi nei processi produttivi e modifiche all’organizzazione del lavoro. Un dettaglio che molti sottovalutano è che questa attitudine non è prerogativa dei soli tecnici: serve anche negli uffici e nelle filiere amministrative.
Il report assegna percentuali rilevanti a settori specifici: l’attitudine green è giudicata necessaria per il 70% delle professioni tecniche e specializzate e per il 64% degli operai e degli impiegati. È un cambiamento che mette in evidenza la centralità della sostenibilità nelle mansioni quotidiane.
Competenze richieste dalle imprese
Le aziende dichiarano una domanda articolata su tre grandi blocchi di competenze. Il primo è l’attitudine green trasversale, ovvero la capacità di individuare sprechi, proporre interventi di efficienza energetica e adottare pratiche di lavoro sostenibili. Il secondo gruppo riguarda le competenze tecniche specialistiche: progettazione di impianti a basso impatto, gestione dei rifiuti, installazione e manutenzione di tecnologie rinnovabili. Il terzo blocco è costituito dalle competenze digitali necessarie per monitorare consumi, gestire dati ambientali e integrare sistemi intelligenti nei processi produttivi.
In concreto, le imprese cercano profili che sappiano leggere dati di consumo, eseguire un audit energetico e applicare misure di riduzione dell’impronta ambientale. Si tratta di abilità che si imparano sul lavoro ma che richiedono anche percorsi formativi mirati: corsi tecnici, certificazioni professionali e aggiornamenti continui. Un aspetto che sfugge a chi vive in città è che molte opportunità saranno legate a interventi su infrastrutture locali e impianti industriali.
Il gap tra domanda e offerta si sostiene su elementi pratici: mancano formatori, mancano percorsi riconosciuti a livello nazionale e spesso le piccole imprese non hanno risorse per assumere figure specialistiche. Per questo la formazione continua e i programmi di riqualificazione diventano una leva essenziale, insieme alla capacità delle imprese di integrare competenze interne ed esterne.
Cosa cambia per lavoratori e imprese
L’espansione dei cosiddetti green jobs modifica il modo in cui si costruiscono le carriere. Per i lavoratori significa che saper valutare l’impatto ambientale di un processo può valere quanto saper usare una macchina o un software. Per le imprese significa ripensare l’organico, investire in riqualificazione e rivedere procedure produttive. Nel Nord come nel Sud il terreno di confronto sarà la capacità di integrare competenze tecniche, digitali e gestionali nelle catene del valore.
Le politiche attive e gli incentivi pubblici sono citati come strumenti chiave per accelerare il ricambio occupazionale: finanziamenti per la formazione, sgravi per assunzioni qualificate, bandi per l’innovazione industriale. Allo stesso tempo, le imprese devono assumere un ruolo proattivo nell’offrire percorsi di aggiornamento e collaborazioni con istituti tecnici e università. Un fenomeno che in molti notano è la necessità di approcci personalizzati per le PMI, che costituiscono gran parte del tessuto produttivo italiano.
Per il cittadino comune il cambiamento si tradurrà in servizi più efficienti, case con consumi ridotti e lavori che richiedono competenze miste. Alla fine, la sfida non è solo trovare 4 milioni di figure: è rendere sostenibile il modo in cui si lavora, distribuendo competenze sul territorio e creando percorsi di carriera che durino nel tempo. Un dettaglio realistico: nelle officine e nei cantieri già si stanno introducendo pratiche di monitoraggio dei consumi che fino a poco tempo fa sembravano appannaggio solo delle grandi aziende.
